domenica 13 novembre 2011

strana la vita...


strano come a volte bastano  quattro parole scambiate con un estraneo nell’anticamera di un ambulatorio medico per riportare a galla cose che nemmeno ricordavi più…
In questi giorni ho portato la mia mamma al controllo medico dopo un piccolo intervento. Fra noi parliamo da sempre in dialetto friulano, ci viene naturale, e quando siamo in presenza di persone sconosciute, ci piace anche di più usare il dialetto, perché così nessuno capisce quello che ci diciamo. Questa volta  però seduto in disparte, due sedie dopo le nostre, c’era un signore sull’ottantina e mi sono accorta  che ascoltava, annuiva e sorrideva al nostro discorso, l’ho fatto notare a mia madre e lei subito gli si è rivolta in friulano chiedendogli se anche lui avesse le stesse nostre origini.
Lui risponde affermativamente, e da quel momento si sono aperte le cataratte, nel senso che mia madre e questo signore si sono messi a parlare fitto fitto dimentichi di tutto quello che succedeva intorno. Si sono praticamente raccontati a vicenda la loro vita, partendo quasi dalle origini. Meno male che eravamo arrivate molto prima dell’orario previsto!
Io ascoltavo distrattamente mentre con la mente ripensavo a tutte le cose che dovevo fare e sperando che arrivasse presto il medico per potermi liberare velocemente, intanto captavo qua e là brani di conversazione, senza registrare niente di particolarmente interessante tranne quando mia madre iniziò a raccontare di quando, per un lungo periodo, casa nostra fu il fulcro, il punto d’ incontro di tutte le ragazze del paese che erano a servizio a Milano.
Di colpo sono tornati tutti i volti, le voci, le storie di tante donne e ragazze che ho conosciuto da bambina.
A metà di quegli  anni ’50 il Friuli era terra d’emigrazione, la povertà aveva livelli molto alti, e la maggior parte dei giovani partiva per cercare un lavoro dignitoso, che permettesse di vivere meglio e che potesse garantire un futuro diverso, oppure soltanto per mandare i soldi a casa e pagare i debiti.
Così molte ragazze venivano in città a fare le cameriere, e in quanto friulane erano anche molto richieste, la fama di grandi lavoratrici le precedeva…
era come una catena, ne arrivava una e subito dopo questa ne faceva venire un’altra e un’altra ancora, e così via.
Dal mio piccolo  paese, nel giro di qualche mese ne arrivarono sette od otto.
Difficile ambientarsi in una grande città per chi è sempre vissuto in un piccolo borgo sperduto, affogato in mezzo ai campi e alle vigne, difficile,  lungo e triste, se non hai riferimenti.
Ricordo che il giorno di libertà era quasi sempre la domenica pomeriggio, tranne in qualche occasione. E così, dato che in paese ci si conosce tutti anche quelli che non fanno strettamente parte della tua cerchia, la domenica pomeriggio si ritrovavano  tutte da noi, ma la nostra casa era la guardiola di una portineria, lunga 2 metri e larga 1,5 con una parete tutta a vetri per permetterci  di vedere e controllare  il passaggio,  la stanza da letto invece era al primo piano, sulla ringhiera. In quei tempi  non è come ora,  la portineria non chiudeva mai,  aperta tutti i giorni che Dio manda in terra dalle 6 alle 22.
Era iniziata pian piano questa consuetudine con Amalia, prima cugina di mio padre, che era a servizio in Via Manin. La domenica arrivava nel pomeriggio e aveva sempre qualche pacchetto.
Di solito abiti smessi della sua “padroncina” che aveva un paio d’anni più di me, mia madre ne era contenta, io un po’ meno, soprattutto se nel pacco c'erano delle scarpe, di un numero meno di quelle che portavo io,  ma erano tempi difficili e avere uno di quei vestiti di ottima qualità non era da tutti.
Poi pian piano cominciarono a venire anche Vittoria e poi AnnaMaria, una seconda cugina, e poi Severina, che era un po’ più avanti con gli anni e aveva un figlio piccolo al paese, e poi Ginetta, e poi le sorelle Baruzzo di cui non ricordo più i nomi...alcune attraversavano tutta la città per arrivare a casa nostra, per non rinunciare a quel pezzetto di Friuli a Milano, dove si parlava  friulano e si potevano smettere i panni delle serve.
Per farla breve, quella piccola guardiola della casa di ringhiera, la domenica pomeriggio era sempre molto frequentata nonostante lo spazio minimo.
Ricordo che per farci stare le sedie dovevamo metterle su due file come al cinema e il cinema lo facevano loro.
Io me ne stavo sempre accoccolata nella pancia sporgente della grande griglia di ferro  che ornava l’unica finestra, e ascoltavo...
storie quasi sempre incomprensibili per me a quell’età, le ho capite molto dopo, come di quella che si era innamorata del suo datore di lavoro, o dell’altra che aveva litigato con la figlia della sua “Signora”, o quella che era stata lasciata dal moroso di turno al paese.
Un piccolo spaccato di vita lontano da casa, con tutte le paure, le ansie, le preoccupazioni, le miserie e le nobiltà d’animo...le accomunava la malinconia per la famiglia, per aver lasciato le loro radici, amate, nonostante tutto.
In occasione delle festività c’era sempre qualcuna, a turno, che andava al paese, vuoi per i Santi, vuoi per Pasqua, e quando tornavano c’era sempre un pacco per noi mandato da qualche parente che sapeva di questa consuetudine e ne approfittava per mandarci salami o formaggio, o addirittura dei funghi  particolari  che nascono solo in certi campi e solo in certi momenti e di cui mio padre era molto ghiotto, un servizio postale in piena regola praticamente. Oggi vedo fare le stesse cose agli extracomunitari, soprattutto dell’est, hanno sempre qualcuno che con un furgone organizza spedizioni cumulative da e per il loro paese.
Ricordo una volta che non so chi portò del formaggio per fare il frico, e detto fatto mia madre imbastì una cena per tutti a base di frico e polenta......
una cena frugale certo, e povera come tutta la cucina friulana, ma sicuramente piena di sapore. Il sapore delle cose conosciute, il sapore della nostalgia di casa, ma anche  il sapore amaro dell’emigrazione.

Alcune di queste persone le rivedo quando torno al mio paese, altre non ci sono più, altre ancora vivono in  luoghi diversi... Chissà se si ricordano di quei momenti, sicuramente per loro non sono ricordi legati a un bel periodo, ma forse al ricordo della giovinezza sì.

Stamattina, aprendo il frigorifero accingendomi a cucinare mi sono accorta che avevo ancora un pacchetto sottovuoto di formaggio da frico, comprato l'ultima volta che sono andata in Friuli, a prendere mia madre.
Vederlo e decidere di cucinare il frico è stato solo un attimo, un battito di ciglia...
eccolo qui, ancora sfrigolante nella padella...

l frico si fa solo in Friuli Venezia Giulia. In nessuna popolazione delle Alpi si prepara, e nemmeno nel Nord Europa esiste un piatto che soltanto gli si avvicini., originario della Carnia, è uno dei piatti più tipici del Friuli.
Viene da molto lontano, la prima ricetta scritta con il nome di “Caso in Patellecte”viene riportata nel “Libro de Arte Coquinaria” di Maestro Martino, cuoco del Patriarca di Aquileia, Lodovico Trevisan, nella seconda metà del XV secolo: “Piglia del caso (formaggio) grasso che non sia troppo vecchio né troppo salato…et tagliarai in fettolini… et habi delle patellecte (padellette) fatte a tale mistero…”. Già si parla di Frico "che al fas ai muart tirà el flat"...che fa respirare imorti"

Nella tradizione della montagna, il frico croccante, insieme alla polenta fredda (ben soda) era cibo tradizionale che i boscaioli potevano trasportare negli zaini, piatto per stomaci robusti dunque, in pianura era anche destinato per la colazione del mattino a chi faceva la fienagione, d’estate.

Mio nonno partiva la mattina con la sua falce ben arrotata. Saltava cavalcioni della sua bicicletta, la falce a bandoliera, il cote e gli altri attrezzi in una tasca del sellino e una sporta di tela a tracolla con dentro una bottiglia di Tocai e un bel pezzo di frico, un bel pezzo di polenta, anche freddo, il frico sarebbe stato il suo cibo di tutta la giornata e via, pedalare...

Mio nonno Basilio era un uomo alto e molto magro, ma dotato di una grande forza. Da solo tagliava tutto un campo di quasi due ettari a Dandolo, una frazione del comune di Maniago, molti chilometri più su di dove vivevamo, verso le montagne,  e dove cresceva un'erba durissima, molto particolare, che davano da mangiare ai maiali di S. Daniele. Chiamavano sempre lui a falciare quell'erba, perchè altri non ci riuscivano...

Come in tutte queste ricette, ogni famiglia ha la sua, ma ci sono molti modi per cucinarlo, croccante come una cialda di parmigiano, oppure  con le mele, con l'erba cipollina, con patate e cipolle. Meglio se cucinato sulla stufa a legna, facendo attenzione che non diventi troppo rosso altrimenti si fa amaro. A casa mia si è sempre fatto con cipolle e patate partendo da crudo, poi, per fare prima, c'è chi usa patate lesse. Mia madre ha sempre fatto con le patate crude, e io continuo in quel solco...
Ancora oggi si mangia con la polenta, ma è eccellente anche con l’aperitivo. Deve stargli accanto un buon bicchiere di Tocai  (oggi Bianco Friulano) pieno di struttura e colore, ed ecco come un cibo antico diventa moderno ed attuale.

Da qui, a parer mio,  la sua assoluta grandezza...


 ed ora, dopo tante chiacchiere, la ricetta.  Questa è bastata per tre persone:


Frico

circa 3/400 gr di formaggio Montasio fresco
4 patate medie
1 cipolla
sale, pepe, olio



tagliare in piccoli pezzi sottili le patate, Affettare sottilmente anche  le cipolle. Tagliare a piccoli pezzi il formaggio.
In una larga padella (ne  ho usata una antiaderente da 26) scaldare un goccio d'olio, non troppo perchè poi il formaggio rilascerà del suo, far rosolare le patate mescolando sempre perchè non scuriscano troppo.
Quando sono rosolate, aggiungere le cipolle, sempre mescolando e rigirando per non farle bruciare. Il fuoco deve comunque essere medio alto. Una volta cotte le patate e le cipolle, schiacciare  il tutto con la forchetta in modo da avere un composto grossolano. Unire il formaggio a pezzetti e mescolare aiutandosi con un paio di forchette o cucchiai in modo che si sciolga bene e si distribuisca in tutto il composto. Una volta che è del tutto sciolto, fare in modo di dare la forma di una frittata, muovendo la padella in modo che si stacchi dal fondo. Lasciarlo dorare facendo attenzione che non si scurisca troppo altrimenti diventa amaro, quindi con l'ausilio di un coperchio, girarlo esattamente come una frittata rimettendolo a cuocere nella padella per un paio di minuti, sempre con la cura che non scurisca. Togliere dal fuoco, perchè intanto lui continuerà a cuocere, spolverare leggermente di pepe nero e servire rovente, con della polenta.
Se ci fosse troppo olio nella padella, eliminarne un poco prima di rigirare il frico, altrimenti si rischia di scottarsi...
Mandi!





12 commenti:

  1. Giuli ti adoro!!! i tuoi racconti mi incantano
    un abbraccio :)
    Fabi

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  2. .....anch'io lo faccio così, il frico, per i ragazzi solo con le patate, rigorosamente crude: me l'ha insegnato la suocera friulana della mia collega!!!...........è....sublime!!!

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  3. Incantevole come sempre ... per qualche attimo mi è sembrato di rivivere certi periodi della mia infanzia.
    E il frico è eccezionale.
    Mandi

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  4. Serafina, giro per il friuli bisogna farlo ora!! dobbiamo comprare il montasio e fare questo capolavoro!!!!!!

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  5. Grazie! Grazie per la ricetta così ben spiegata e per il racconto così bello!

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  6. Giuliana, le tue ricette sono una certezza, i tuoi racconti scaldano il cuore.

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  7. ciao Giuliana...mi ha mandata qua mio marito...un CERTO CAMERIERE di un CERTO RISTORANTE.....e che bello vedere subito il post del frico....mio papà è di Grado...e anche se Grado non si considera "friuli"....io di frico ne ho mangiati kili in giro per la furlania ;)

    http://saralovesbutter.blogspot.com/

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  8. Come promesso dopo il nostro incontro al ristorante di ieri sera mi sono subito iscritta, complimenti per il blog FAVOLOSO che consulterò spesso!!!
    A presto,
    Simona!!! :)

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  9. grazie Simona, è un vero piacere leggerti! Sono contenta che ti piaccia il blog!

    Un caro saluto e buona giornata...

    Giuli

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  10. grazie a tutte ragazze, che sopportate le mie lagne...

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